Se vuoi veramente che le cose non cambino…, impara a lamentartene.
Psicologia Life
Lo scopo di questo breve articolo, è fornirci brevi, ma significativi spunti di riflessione e se par meglio “istruzioni”, su come conservare, immutata, la nostra condizione di vita, quando infelice, insoddisfacente e i nostri cari problemi mentali, fisici, economici, sentimentali, etc, senza venirne mai fuori.
Dunque di cosa parliamo qui?
Di lamentele e di come siano una soluzione che la mente-corpo adopera quando di fronte ad una qualsiasi sua sofferenza, preferisce conservarla, piuttosto che cambiare se stessa.
A tutti capita di lamentarci un po’ e farlo non è poi così disfunzionale, né peccaminoso, poiché a ben vedere, ci concede di guadagnare tempo ed energia, che invece il cambiamento richiederebbe con tempi rapidi e costi onerosi, allorquando proprio siamo nella difficoltà di fare bilanci, di prendere iniziative, di rischiare, di cambiare.
Quando ci lamentiamo, stiamo si cercando aiuto, eccome, ma è un aiuto ben diverso da quello che ci permetterebbe di cambiare. Con la lamentela noi non vogliamo essere aiutati a cercare e trovare soluzioni, ma semplicemente cerchiamo sostegno ed energia dall’altro, per riuscire a restare nella nostra condizione, fingendo talvolta anche che stiamo facendo o abbiamo già fatto tutto il possibile per cambiarla, ma che ahimè non dipende da noi. Chiediamo a chi ci ascolta, implicitamente, una cosa già giudicata da noi impossibile e poi facciamo in modo che l’altro ci creda, si impietosisca e ci sostenga, semplicemente prestandoci un po’ della sua compassionevole energia, con la sua presenza, con il suo sostegno non giudicante verso di noi, ma diversamente verso altri, i classici “capri espiatori”, i nemici, i persecutori colpevoli delle nostre sciagure. Noi impotenti, vittime non possiamo sperare il cambiamento, ma possiamo scegliere con chi disperarci, avendo cura ci faccia sentire abbastanza capiti e ascoltati. Questo qualcuno ha da capire che non c’è nessun bisogno di riflessioni, soluzioni e proposte, poiché tutto questo non serve, tanto più giudizi, aperti rimproveri o moralismi. Chi non si attiene a questo copione non potrà essere un interlocutore ideale per noi, quando abbiamo bisogno di lamentarci. Diversamente cerchiamo una “amicizia” fidata con cui sfogare ansie e angoscie senza attese di giudizi. Una amicizia neutrale, capace di starne fuori, eppure disponibile a farsi allagare, con la nostra angoscia, fin dentro la sua “imbarcazione” ad infangare i presunti colpevoli e giustiziarli con sentenze piene di accanito risentimento.
Chi si riconoscerebbe mai per carità in questa descrizione …
Eppure, purtroppo, perfino molte psicoterapie procedono in questo modo, non provocando cambiamenti veri e propri, ma invece sostenendo quelle disfunzionalità che ci permettono di continuare a inscenare in modo perpetuo il ruolo della vittima, del disgraziato, della malata, dello sfortunato, etc
Sono consapevole di averlo messo in scena anche io, questo copione, innumerevoli volte, pertanto riesco a descriverlo …
In pratica stiamo su una nave che sta affondando, ma non vogliamo salire sulla scialuppa, però invece di dire che non vogliamo, ci diciamo che non possiamo e poi lamentandoci speriamo che la nave venga magicamente riparata, magari solo grazie al potere del nostro lamento.
Certo detto così si tratta di una specie di delirio quasi, che tuttavia abbiamo sperimentato come funzionale in alcune condizioni, poiché magari ci ha permesso di non fare passi azzardati, di risparmiare energie nell’immediato, in un tempo di scarse risorse, ma che tuttavia adottata come soluzione elettiva per qualunque situazione e in qualunque momento, si rivela, come qualsiasi altra soluzione abusata o usata indiscriminatamente, completamente fallimentare.
Lamentarci oggi ci permette un risparmio di costi e tempi, a lungo termine ci procurerà un conto più salato ed inevitabile.
Lamentarci ci sta permettendo poi di restare, senza migliorarle affatto, proprio in quelle dinamiche relazionali che motivano il lamento. Questo sempre senza fare alcunché di risolutivo, senza prendere alcun impegno concreto, senza intraprendere alcuna azione efficace, per cambiare quella relazione o quel genere di problemi che reca sofferenza, sollecitando il lamento.
C’è poi una attesa paziente, meditata che è un recuperare energie per prepararsi all’azione, alla presa di decisione. Essa tuttavia implica quel silenzio, quella concentrazione e dunque quel livello di rumore adatto e necessario a intraprendere una scelta efficace, che è estraneo al fare di chi si lamenta, che invece cerca continuamente attenzione all’esterno, da altri, ma non la pone da Sè, ad esempio auto-osservandosi.
Quando ci lamentiamo cerchiamo inconsciamente di perpetuare il problema, che si immagina già insormontabile, ma anche perchè temiamo come catastrofica proprio la sua reale risoluzione.
Per una lamentela efficace, serve dunque prima di tutto “un problema”, ma ancora più sono necessari:
- Ridotti o scarsissimi speranza, immaginazione e ottimismo;
- un interesse (inconsapevole) a perpetuare quel problema;
- qualcuno con cui lamentarci.
Per quanto riguarda il problema, andrebbe ricercato effettivamente nel modo di fare e pensare e soprattutto nel sentire e percepire nostro; tuttavia in questo modo rischieremo di migliorare e cambiare la nostra condizione, precipitando in qualche soluzione; pertanto esso viene focalizzato all’esterno di noi, si dice tecnicamente che il nostro Locus of control è esterno; ovvero percepiamo che non dipenda da noi, nè il “problema”, nè la soluzione.
Parlando di problema, quest’ultimo potrà essere identificato in modo vario e variabile, con rapporti sentimentali, relazioni sociali, lavorative, amicali, ovviamente insoddisfacenti e irrisolte, ma anche spesso con problemi finanziari, caratteriali, fisici o somatici. Allo stesso modo nemmeno la soluzione viene percepita come possibile e alla nostra portata.
Non riusciamo infatti né a sperare e nemmeno ad immaginare una soluzione, realisticamente parlando. Poiché queste capacità già ci predisporrebbero all’ attesa, alla azione, non già alla lamentela, in tal caso percepita come di “ostacolo” ai traguardi e non di aiuto.
Le nostre percezioni relativamente noi stessi, gli altri e solo apparentemente il problema, sono invece fortemente negative e rigide.
Se fossimo lasciati soli di fronte a questo turbinio di pensieri, sentimenti, stati, percezioni negativi, rigidi, fissi, disperati, potremmo forse compiere gesti rischiosi mettendo così fine alle nostre sofferenze?
C’è poi un interesse inconsapevole, a conservare le cose, le situazioni e i problemi, innescato continuamente dal timore di uno scenario ancora peggiore e anche dal vantaggio secondario che ci procura la sofferenza a cui già siamo abituati.
Così cerchiamo con cura la persona con cui possiamo almeno lamentarci. Una persona che come detto in precedenza ci faccia da schermo neutro e ci dia l’impressione di incoraggiarci con piccole ma opportune frasi di circostanza ideali al mantenimento dello Status Quo. Qualcuno che si faccia “triangolare” volentieri per sostenere la nostra causa contro la cattiveria di quel tale, la sfortuna piombata addosso e altri pensieri nefasti.
Lamentarsi è dunque una tipica tentata soluzione che rafforza il problema e spazza via le soluzioni. Un modo pigro di gestire la sofferenza generata dal problema percepito e che permette di non affrontarlo, nell’illusione di farlo domani, procrastinando all’infinito la sua reale gestione e soggiacendo nel qui ed ora, in quella quotidiana e silente angoscia depressiva, tipica di chi vive la disillusione e la rassegnazione di un cambiamento percepito come realmente impossibile, ma le cui responsabilità vengono addebitate fuori da noi, lontano da una relazione basata sul confronto.
Ogni volta che scegliamo di lamentarci, stiamo solo spostando più in là nel tempo la soluzione del problema. Stiamo procrastinando in effetti, piuttosto che investendo in quella situazione problematica, che richiederebbe invece coraggio, impegno e anche molta fatica. Ogni volta che ci lamentiamo, stiamo scegliendo la strada autoconsolatoria e delirante. Proiettando su un terzo, una aspettiva segreta di ipotetica e magica risoluzione. Investendo uno spazio relazionale neutro, di un ruolo insano, ovvero chiedendo alleanza contro il nemico, quello di cui ci si lamenta.
Lamentarsi, è come prendere un antidolorifico, quando fa male un dente cariato. Si chiede all’antidolorifico semplicemente, di aiutarci a sopportare quel malessere, senza far nulla per cambiarlo, posticipando l’ intervento necessario a curare il dente, ponendo finalmente fine alla ragione del malessere.
Ogni volta che accogliamo il lamentarsi di qualcuno o ci lamentiamo con un altro di quello che non va in un altro contesto di relazioni, scegliendo questa modalità in maniera sistematica, stiamo ingannando noi stessi e cronicizzando i nostri problemi relazionali e psicologici.
L@ psicolog@, come l’altr@ “amic@”, può accogliere il lamento, ma a differenza di questi, dopo un breve tempo volto a contenere l’ angoscia del suo cliente, lo spingerà a riflettere anche sul senso del lamento. Aprendo nuovi possibili scenari futuri. L@ solleciterà quindi a confrontarsi sulla proposta relazionale e sul significato di quel lamentarsi nella relazione con l@i.
Proponendogli piste diverse, per agire quel cambiamento impossibile nel lamentarsi, ma possibile invece se confrontato con dati di realtà, con le proprie emozioni, aspettative, desideri, paure, incertezze, limiti, risorse etc
Portandolo oltre quell’unica collusione possibile, aiutandolo a trasformare quel legame di complice sterilità affettiva, in un legame fecondo di significato. A trasformare quella proposta affettiva, tesa alla stasi perpetua, verso assetti nuovi dinamici e virtuosi. A svelare e curare la sofferenza taciuta, sottesa al lamento; così come un volto sanguinante è coperto da una maschera logora e liberato da essa può essere finalmente curato e risanato; a trasformare tutto quello che chiede di essere cambiato, in qualcosa di nuovo, di più autentico, di curato, di bello.
Un@ brav@ psicolog@ e psicoterapeuta strategic@, sa danzare con te la tua stessa danza, per poi cambiare quando è giunto il momento quella danza.
Un@ brav@ psicolog@ e psicoterapeuta strategico sa perciò utilizzare anche la lamentela.
Son rimasto lontano dalla pace,
ho dimenticato il benessere.
E dico: “È sparita la mia gloria,
la speranza che mi veniva dal Signore”.
Il ricordo della mia miseria e del mio vagare
è come assenzio e veleno.
Ben se ne ricorda e si accascia
dentro di me la mia anima.
Questo intendo richiamare alla mia mente,
e per questo voglio riprendere speranza.
Le misericordie del Signore non sono finite,
non è esaurita la sua compassione;
esse son rinnovate ogni mattina,
grande è la sua fedeltà.
Lamentazioni 3, 17-23